lunedì 13 giugno 2011

A lezione di fischi

In prima media ebbi un'illuminata professoressa d'italiano, una delle poche persone incontrate nella mia vita che ricordi con gratitudine, che sembrava perfino ci volesse bene, e  che tra le altre cose - tipo darci addirittura qualche rudimento di educazione sessuale - organizzò una staffetta di noi alunne (sembrerà impossibile ma era una classe di sole femmine) per andare a turno a casa di una nostra compagna di classe malata di cuore a portarle i compiti e ad aiutarla a studiare, visto che lei per un lungo periodo non poté venire a scuola. A me toccò occuparmi proprio delle lezioni di italiano e storia (sì, devo confessare che ero un pò la pupilla della prof).

La ragazza in questione era un pò più grande di me - io non avevo ancora 11 anni, lei quasi 12 - occhialuta e un pò nasuta, dalla bocca vagamente conigliesca, e di estrazione molto popolare. Viveva in uno strano piccolo appartamento tutto finestre costruito su un terrazzo interno di un palazzone anni '60 (raro esemplare nel nostro quartiere decrepito, il che ai miei occhi lo rendeva una figata), con la nonna.
Questa cosa che vivesse con la nonna naturalmente faceva subito cartone animato giapponese degli anni '80, e accresceva quel leggero fascino che tutta la situazione esercitava su di me.
Un altro aspetto da non sottovalutare era che quando mi avviavo il pomeriggio con libri e quadernetti verso il fantastico palazzone moderno che stava a 50 mt da casa mia per assolvere la mia missione mi sentivo parecchio importante e carica di positive responsabilità: mi sentivo una prof in miniatura, e per una bambinetta educata a casaccio, un pò viziata, un pò di più ignorata, non era per niente una cosa da poco.
La ragazzina, Raffaella (che nome: ancora non conoscevo nessuno che si chiamasse così tranne Raffaella Carrà) era naturalmente molto più smaliziata/sveglia/matura di me: il mio unico punto di forza era il fatto che fossi l'intellettuale della situazione, che sul quadernetto c'avessi gli appunti presi in classe, dalla viva voce della prof e che fossi stata investita dell'autorità di trasmetterglieli.
Ma questo di certo non bastava e purtroppo io mi sentivo  piuttosto a disagio: lei era malata, lei viveva con la nonna, lei aveva una mamma strana che abitava da un'altra parte con altri figli piccoli, lei apparentemente non soffriva tanto di tutto ciò; io ero solo un'imbranatella dall'aria un pò secchiona, con gli occhiali da medesima che non sapeva niente della Vita, se non qualche nozione teorica appresa su Topolino. Insomma c'era di che invidiarla.
I miei sentimenti oscillavano quindi fra il complesso di superiorità e quello d'inferiorità, quasi mai collocandosi in una più equilibrata via di mezzo. Fino al giorno che - fra un  imbarazzo, un mezzo sguardo di sufficienza suo, un altro mezzo sguardo di snobberia mio e un qualche argomento buttato là che sembrava sempre non c'entrarci niente con una delle due- diventammo amiche.

I rispettivi argomenti erano divenuti inaspettatamente interessanti: nè più snobberia, nè sufficienza. Non so più quali fossero esattamente i miei, di argomenti, però mi ricordo molto bene alcuni dei suoi: un particolare fischio fortissimo che sapeva fare e che mi insegnò in più riprese, che si produceva afferrandosi il labbro inferiore con due dita e risucchiando l'aria invece di soffiarla (lo so fare ancora, e ne vado piuttosto orgogliosa); le lettere e le cartoline dai francobolli coloratissimi che le  inviavano due ragazze giapponesi - di Hiroshima addirittura - che aveva conosciuto una volta su un traghetto diretto a una qualche isola (questa cosa mi impressionava parecchio, ma non tanto che le due fossero della città della bomba atomica quanto soprattutto che lei  avesse per  amiche di penna donne 'di una certa età'); la sua natura, un po' grezza un po' furba.
Dopo qualche tempo, la sera, terminata la "lezione", lei prese l'abitudine di accompagnarmi fino al portone di casa mia, e lì restavamo un sacco di tempo a parlare e a consultarci: mi dava consigli su come mettere gli occhiali sul naso per farlo sembrare più carino, suggerimenti su come pettinare i capelli, lezioni su come baciare i ragazzi, ché lei ne aveva avuti già alcuni e vantava una certa esperienza (e io mi immaginavo che questi ragazzi li avesse conosciuti forse in qualche ospedale, ma non glielo chiesi mai).
Ogni consiglio aveva per me un peso e un'autorevolezza indiscutibili: senza alcun dubbio le mani mentre ci si baciava si tenevano così e solo così, e il fermacapelli andava messo proprio in quel punto preciso della testa, non un centimetro più in là.

A quell'epoca non ci pensai mai ma ora mi viene da chiedermelo: l'amicizia forse consisteva - anzi consiste- di questo? Voler  imparare qualcosa - di qualsiasi cosa si tratti, anche la più stupida o inutile - dall'altra persona, e non invidiarla (almeno non troppo) e non pensare che lei dovrebbe invidiare qualcosa a te?
Alla fine l'unica cosa che io veramente ancora invidiavo a Raffaella erano i suoi sgargianti francobolli giapponesi, che avrei tanto voluto mettere nella mia piccola, immancabile, collezione da secchiona. E che lei poi scollò dalle sue cartoline, esattamente nel modo che io le avevo insegnato, e mi regalò.
Io ne fui contentissima, e di tanto in tanto andavo a rimirarmeli, i miei francobolli; ma con un leggero timore, chiedendomi ogni volta se, per caso, non fossero un po' radioattivi.

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